Con la sentenza n. 13000 del 15/05/2019, la Suprema Corte di Cassazione affronta il tema della procreazione medicalmente assistita c.d. “postuma”, con particolare riferimento alla condizione giuridica del figlio nato a seguito di fecondazione omologa.

La pronuncia trae origine dal ricorso proposto da una donna che, a causa di difficoltà riscontrate nel concepimento di un figlio, aveva deciso assieme al coniuge di intraprendere un percorso di procreazione medicalmente assistita all’estero.

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Nel corso della terapia il marito aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo assumere farmaci che ne avrebbero definitivamente compromesso la capacità di generare, nonchè consapevole della propria fine imminente, aveva reiterato il proprio consenso ed autorizzato la moglie all’utilizzo, post mortem, del proprio seme criocongelato.

In seguito al decesso del marito la donna si era sottoposta al trattamento di fecondazione medicalmente assistita in Spagna, dando poi alla luce, in Italia, la propria figlia.

La successiva richiesta della madre di trascrizione della paternità del coniuge defunto nell’atto di nascita della piccola (e dunque l’attribuzione del cognome paterno in favore di quest’ultima) era stata tuttavia rigettata dall’ufficiale di stato civile.

Questi aveva infatti ritenuto che la dichiarazione fosse contraria all’ordinamento vigente, dato che la nascita era avvenuta oltre il periodo di trecento giorni previsto dall’art. 232 c.c. per la presunzione di concepimento

A prescindere dalla liceità o meno di tale tecnica in Italia, la Corte statuisce che la parificazione ai figli legittimi, prevista dall’art. 8 della L. n. 40/2004 per i nati a seguito di procreazione medicalmente assistita da entrambi i genitori viventi, deve valere anche per i nati da fecondazione omologa dopo il decesso del padre, ciò anche se sono decorsi i trecento giorni previsti dall’art. 232 del codice civile ai fini della presunzione di paternità del concepito.