Amministratore di sostegno non sempre necessario (Trib. Vercelli, sentenza 16/10/2015)

a cura dell’Avvocato Luca Bonjour

 

Il Giudice Tutelare del Tribunale di Vercelli, con la recente pronuncia del 16 ottobre 2015, ricordando i principi sottosesi all’istituto dell’amministrazione di sostegno, statuisce in merito all’opportunità di ricorrervi in talune circostanze.

Vanno fatte alcune necessarie premesse.

Il ricorso all’istituto dell’amministrazione di sostegno ha quale conseguenza necessaria la limitazione della capacità di agire di un soggetto.

Dal punto di vista del diritto sovranazionale, è noto, a mente dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle liberta fondamentali, ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, e non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge a protezione della salute, e quindi, lato sensu, dei bisogni delle persone deboli e non autosufficienti

Detta limitazione della capacità di agire, pur posta a protezione del soggetto beneficiario, può dunque essere disposta solo ed esclusivamente nei casi previsti dalla legge.

Nel caso dell’amministrazione di sostegno, la norma di riferimento è l’art. 404 c.c..

La disposizione in parola, con formulazione non dissimile nella struttura alla disciplina dell’interdizione (art. 414 c.c.) ed inabilitazione (art. 415 c.c.), pure fondate su infermità causalmente determinanti la incapacità di provvedere ai propri interessi, stabilisce che è ammesso a beneficiare dell’amministrazione di sostegno solo la persona che:

–        sia nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi;

–        che lo sia per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica;

Al Giudice di merito è dunque rimesso un triplice accertamento:

–        il primo concerne la sussistenza o meno di una infermità e/o di una menomazione;

–        il secondo concerne la verifica di una effettiva impossibilità, anche parziale, della persona beneficiaria di attendere ai propri interessi;

–        il terzo, concerne il riscontro di un nesso causale tra le circostanze sopradette (cfr. sul punto, chiarissima, Cass. Ord. 04.2.2014, n. 2364, Rel. Acierno).

Con riferimento al secondo ed a terzo di tali aspetti, il Giudicante ha sottolineato, in accordo con la giurisprudenza tutelare più attenta (cfr. Uff. G.t. Milano, decr. del 03.11.2014, Est. Buffone), che “la necessità di un amministratore di sostegno sempre e in ciascuna situazione di bisogno comporta una necessaria istituzionalizzazione di ogni figura di assistente e tradisce la lettera e lo spirito della legge”.

L’interpretazione che il Giudice milanese correttamente abiura si porrebbe in contrasto con una lettura costituzionalmente orientata delle norme che presiedono all’istituzione delle misure di protezione.

Se è vero infatti che lo Stato deve rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana, con ciò accordando un diritto (art. 3 Cost.), è altresì vero che lo stesso Stato deve costantemente richiedere l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.)

E tali doveri sono posti, come è ovvio, in primo luogo a carico dei soggetti che – di fatto o in quanto a ciò normativamente tenuti – siano prossimi a chi, per qualsivoglia motivo, si trovi in situazione di bisogno: lo Stato, infatti, non può di certo prefiggersi l’obiettivo, del tutto irrealistico, che ogni suo singolo consociato abbia la “possibilità di provvedere ai propri interessi” del tutto autonomamente, e senza l’aiuto del prossimo.

Sulla scorta di una serena analisi del tessuto sociale italiano, ci si accorge agevolmente del fatto che determinate categorie di persone (ad es., gli analfabeti, gli anziani, le persone prive di adeguati mezzi culturali, gli stranieri, magari richiedenti protezione internazionale, del tutto slegati dal territorio nazionale sul quale sono appena giunti, etc.), solo da un punto di vista astratto hanno il potere di curare determinati loro interessi; nel concreto, invero, riescono ad esercitare i loro diritti con pienezza, solo in quanto si giovino dell’ausilio degli altri (della famiglia; dei servizi sociali; delle associazioni; attraverso l’utilizzo degli strumenti negoziali approntati dal diritto civile, quali mandato, procura, testamento pubblico ex art. 603, u.c., c.c., etc; ed in tanti altri modi ancora).

Senza tali strumenti, semplicemente, non ne sarebbero in grado.

L’ausilio altrui, preteso dalla Costituzione in ossequio al dovere di solidarietà sociale, si pone quindi alla stregua di una vera e propria “causa di esclusione” della impossibilità, per taluni consociati, di attendere ai propri interessi.

Il Giudice di Vercelli, pertanto, non ravvisa, il motivo per il quale altri individui, sol perché affetti da patologie, pur invalidanti, che inibiscano loro di provvedere autonomamente ai propri interessi, debbano necessariamente ed ineluttabilmente essere assistiti da un soggetto di nomina giudiziale, laddove siano concretamente in grado di esercitare con pienezza i loro diritti avvalendosi del proficuo aiuto da parte di terzi.

In tale ottica:

i)        la presenza, da un lato, di una rete familiare attenta alle esigenze della persona beneficianda (e priva al suo interno di conflittualità, o tacciabile di un qualche, pur recondito, sospetto in ordine a velleità di approfittamento);

ii)      l’intervento mirato, dall’altro lato, dei soggetti istituzionali (su tutti, come è ovvio, i servizi sociali) deputati all’ausilio delle persone variamente bisognose;

iii)    la disponibilità, in termini di piena e sufficientemente informata accettazione, da parte del soggetto bisognoso, ad avvalersi dell’aiuto proveniente dai predetti soggetti;

iv)    la limitata difficoltà di compimento delle “attività di protezione”, in riferimento ad una agevole sormontabilità delle problematiche di natura pratica, burocratica e giuridica che via via si vadano a presentare;

rendono in uno superflua ed inutilmente gravatoria l’istituzione di una misura di protezione al ricorrere del mero riscontro di una patologia astrattamente invalidante.

Gravatoria, in quanto foriera di innumerevoli – e non dispensabili – incombenti e spese (rendicontazione, presentazione di istanze, accessi in Tribunale, richieste di copie di provvedimenti, assunzione della qualifica di pubblico ufficiale, etc), che andrebbero unicamente ad assommarsi, senza alcun concreto giovamento, a tutte le attività più squisitamente destinate alla cura quotidiana, personale e patrimoniale, degli interessi del soggetto bisognoso.

Il tutto, come detto, con la necessaria privazione, o comunque l’affievolimento, della capacità di agire del beneficiario.

Nel caso di specie, la beneficianda, di età invero molto avanzata, non era affetta da alcuna patologia psichica.

In generale, oltretutto, la beneficianda si era dimostrata incline e ben disposta ad avvalersi dell’altrui ausilio: di quello del servizio di assistenza domiciliare, per gli incombenti quotidiani; di quello della nuora, per il prelievo della pensione; di quello del Legale, per le pratiche successorie; di quello dei vicini di casa, per le attività spicciole di gestione della casa.

Inoltre, in considerazione della evidente affidabilità delle persone di cui si circondava, il Giudice Tutelare ha giudicato iniqua, e soprattutto superlua, la privazione, seppur parziale, della capacità di agire della beneficianda.

Ben più proficuo, meno gravoso, ed in definitiva maggiormente tutelante sarebbe, invece, il conferimento  da parte della beneficianda – ovviamente, ove da questa consentito – di una procura generale notarile in favore di persona di stretta fiducia, quantomeno in riferimento agli incombenti più importanti e coinvolgenti il compimento di attività di straordinaria amministrazione patrimoniale.

Così argomentando, il Giudice Tutelare di Vercelli ha rigettato il ricorso.