LA RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE DELL’AVVOCATO

a cura dell’Avvocato Luca Bonjour

Secondo la giurisprudenza più recente in merito alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 28 febbraio 2014, n. 4876),  sarebbero da ascrivere alla prima categoria quei rapporti creditizi in cui il debitore, per potersi dire adempiente, è tenuto a dimostrare di aver osservato le regole dell’arte e di essersi conformato ai protocolli dell’attività, poiché l’interesse del creditore trova soddisfazione anche a causa dell’incidenza di fattori estranei alla possibilità di controllo del debitore stesso; nelle obbligazioni c.d. di risultato, invece, manca tale incidenza esterna e l’interesse perseguito dal creditore è in rapporto di causalità esclusiva e necessaria con l’attività del debitore.

Applicando tale costruzione giuridica al rapporto fra cliente ed avvocato, ne dovrebbe discendere che il secondo, in caso di mancato conseguimento del risultato avuto di mira dal primo nel conferirgli l’incarico, può dirsi adempiente e dunque esente da responsabilità, ove l’obbligazione sia ascrivibile a quelle di mezzi, dimostrando di aver agito secondo la diligenza professionale richiesta dall’art. 1176, secondo comma, c.c.; ove, invece, il rapporto fosse ascrivibile al novero delle c.d. obbligazioni di risultato, l’avvocato sarebbe libero da responsabilità solo se dimostrasse di non aver ottenuto detto risultato per motivi estranei al suo controllo.

Tradizionalmente, l’obbligazione professionale dell’avvocato è stata ascritta alle obbligazioni c.d. di mezzi giacché fra l’attività del legale ed il risultato perseguito dal cliente si frappone, in caso di azione giudiziaria, la c.d. alea del giudizio, ovvero quel grado di imprevedibilità che contraddistingue il processo e che impedisce di fare previsioni in termini di certezza o di elevata probabilità sul relativo risultato.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 22 luglio 2014 n. 16690, ribadendo come la responsabilità professionale dell’avvocato configuri un’obbligazione di mezzi e non di risultato, ha avuto modo di statuire che una siffatta tipologia di responsabilità presuppone necessariamente una violazione del dovere di diligenza.

Non deve, tuttavia, essere assunto quale parametro il criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, bensì quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, c.c., da commisurare alla natura dell’attività esercitata.

La Corte precisa, quindi, che per affermare la responsabilità dell’avvocato non è sufficiente un non corretto adempimento dell’attività professionale, dovendosi in concreto verificare se:

  1.  l’evento produttivo del danno al cliente è riconducibile alla condotta professionale;
  2.  se un danno vi è stato effettivamente;
  3.  se, nel caso in cui il professionista avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone.

L’accoglimento della domanda risarcitoria nei confronti dell’avvocato presuppone, dunque, la positiva dimostrazione del nesso di causalità fra il danno lamentato dal cliente e la condotta negligente del professionista.

In tale prospettiva, il principio di diritto applicato dalla giurisprudenza risulta essere quello posto dalla certezza che, in caso di comportamento diligente da parte dell’avvocato, i risultati conseguibili sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente (cfr. Cass. Civ. Sez. II, 11 agosto 2005, n. 16846) o, comunque, della probabilità che tali effetti favorevoli si sarebbero prodotti (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 27 marzo 2006 n. 6967).

Sul punto, la Corte precisa che, se è vero che la parte che si afferma lesa può dimostrare anche solo in termini di probabilità e non di certezza che la condotta del professionista assunta come diligente le avrebbe permesso di ottenere una maggiore utilità rispetto a quella concretamente acquisita, allo stesso modo tale dimostrazione esige un certo grado di concretezza e di specificità, non potendo prescindere dalla necessità di un vaglio che superi nel caso di azione giudiziale l’ostacolo formato dall’alea del giudizio.

In conclusione, vengono confermati i criteri della riconducibilità della relativa obbligazione al novero di quelle c.d. di mezzi, in cui il debitore può definirsi adempiente se ha predisposto tutti i mezzi a sua disposizione per far conseguire al cliente il risultato sperato, secondo la diligenza professionale richiesta dall’art. 1176, secondo comma, c.c.; tale opzione, peraltro, ben si sposa con la sussistenza della ricordata alea del giudizio, che funge da elemento estraneo alla potestà di controllo dell’avvocato e che si frappone fra l’attività di questi ed il raggiungimento del fine perseguito dal cliente stesso.